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Comunità e pandemia. Don Paolo scrive ai parrocchiani

Buongiorno ai volontari e alle famiglie di S. Benedetto.

Desidero inviarvi questo messaggio in un momento molto particolare, per condividere ciò che da tempo ho raccolto, riflettendo e confrontandomi anche con altri miei confratelli, a proposito di questo periodo segnato dalla pandemia.

Ci tengo anche a dirvi che, oltre alla ragionevole preoccupazione per la situazione in atto, si aggiunge il dispiacere di non poter proseguire, al momento, la ripresa delle attività pastorali che stavamo faticosamente riavviando insieme.

Per ciò che riguarda l’emergenza in atto ormai da mesi, pur non avendo compreso immediatamente la reale entità di quanto stava capitando, a un certo punto ho capito che effettivamente siamo posti dinanzi alla concreta possibilità della morte di persone care, tanto più se anziane o di salute cagionevole. Le testimonianze di chi lavora negli ospedali e le notizie di ricoveri (e morti) di persone note attestano la serietà della pandemia. Anche nella nostra piccola parrocchia la cosa diventa sempre più evidente: negli ultimi 12 mesi sono stati celebrati 88 funerali, mentre nei 12 mesi precedenti ve n’erano stati 77. Però quest’anno, durante il primo lockdown durato circa 60 giorni (dall’inizio di marzo all’inizio di maggio), per quasi 2 mesi non si sono celebrati funerali, perché non si poteva farlo in chiesa; nello stesso periodo dell’anno scorso se n’erano celebrati 15. Altro dato significativo: quest’anno tra il 10 ottobre e il 10 novembre ci sono stati 20 morti, nello stesso periodo dell’anno scorso ce n’erano stati 8.

Ho accettato di buon grado le varie misure che sono state adottate per il contenimento del contagio perché capisco il ruolo delle autorità civili in una situazione di emergenza, ma provo a viverle come l’assunzione di responsabilità di una cura reciproca. In questi mesi, ho visto alcuni cadere nella comprensibile tentazione di negare parte della realtà emergenziale nella quale ci troviamo per cercare di tornare alla normalità il più presto possibile. Ho visto (e ammirato) la generosità di molti che si sono spesi per gli altri facendo ciò ch’era loro possibile. Alla lunga non mi ha convinto lo slogan: “Andrà tutto bene”, perché di fatto non è stato così per tutti. Non sta andando tutto bene e non andrà tutto bene, ma è anche vero che non mancano testimonianze genuine di umanità e di fede. Per il resto, come comunità, non siamo chiamati a rimanere fedeli alla sorgente della “speranza che non delude” (S. Paolo)?

Da più parti sono stati sollevati alcuni interrogativi: “Perché il Signore ci fa vivere questa situazione? Come affrontarla nella fedeltà a Lui? Come aiutarci reciprocamente a sperare?”. Domande che non troveranno risposta se non siamo certi che Lui non ci abbandona…

Allora, come essere comunità in questa notte nell’attesa della luce?

E cioè: come gestire il desiderio di vedersi, di riunirsi, di partecipare alle attività parrocchiali, ora che dobbiamo RESTARE A CASA?

E poi: come poter dare continuità, in qualche modo, ai legami con le persone in questo tempo di spoliazione delle relazioni interpersonali?

Sono domande come queste che mi spingono a condividere qualche pensiero con voi. Anche se sono alle prese con problemi per lo più diversi rispetto ai vostri (gestire figli, o nipoti, o genitori anziani; lavorare condizionati dalle norme anti Covid-19, o chiusi in casa stando tutto il giorno con i propri congiunti, o addirittura non poter lavorare; per non parlare delle persone direttamente coinvolte dall’epidemia, perché colpite dalla malattia o perché impegnate in ambito sanitario…), penso a chi di voi è legato alla comunità e, di punto in bianco, gli sembra di esserne stato privato.

Ebbene, possono essere tante le reazioni a questa emergenza. Ad esempio, qualcuno potrebbe lasciarsi prendere da un’ansia compulsiva di fare qualcosa e allora si moltiplicano i messaggi vocali, i gruppi su whatsApp che si scambiano forsennatamente messaggi e video… col rischio di amplificare oltre misura l’emergenza.

Forse chi faceva volontariato o anche solo un servizio in parrocchia ora rischia di sentirsi inutile, privato di un ruolo che prima sembrava (ne siamo certi?) garantito. Credo che si debba trovare un equilibrio tra il legittimo desiderio di stare vicini alle persone e il senso di responsabilità che ci chiede di accettare un vuoto, una mancanza, un tempo di inattività. Mi vengono in mente le parole di saggezza del libro del Qoèlet (3,1-7): “Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire… Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare… un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci… un tempo per tacere e un tempo per parlare…”.

Vista l’attuale situazione, potremmo ancora chiederci:

1) Come vivere, a livello personale, questa quarantena obbligata? Viviamo in un tempo davvero eccezionale e non normale, che ci chiede di adottare comportamenti che mai avremmo immaginato prima. Trovandoci in una condizione inedita, potremmo non avere risposte pronte e rassicuranti. Questa incertezza per qualcuno può diventare motivo di sgomento e quando si pensa che domani, dopodomani e non si sa per quanto tempo sarà ancora così, ecco che può affiorare una certa angoscia, o preoccupazione. Non è scontato essere capaci di affrontare un tempo buio e incerto, perché, grazie al cielo, non ci è mai capitato… Invece i nostri nonni avevano conosciuto ben altre calamità e sciagure, come l’epidemia della “spagnola” e la seconda guerra mondiale, cose che noi, forse, neanche immaginiamo nella loro drammaticità…

2) Che cosa fare con i ragazzi e i giovani, visto che non è possibile incontrarli in presenza, secondo le solite modalità e visto che loro stessi (dai pre-adolescenti in su) non vanno più neanche a scuola?

3) E che si fa con gli anziani, che sono la gran parte della nostra comunità, oltre che i più esposti al rischio di contagio e i meno attrezzati dal punto di vista tecnologico e informatico?

Insomma, che cosa possiamo fare, adesso?

Innanzitutto – è doveroso ricordarlo – bisogna seguire le regole che ci vengono date e quindi salvaguardare la nostra salute e quella dei nostri cari. Se davvero ci stanno a cuore le persone con cui viviamo, non dovrebbe essere un problema accettare le limitazioni della quarantena. Certo, dobbiamo capire che il bene comune è da privilegiare rispetto alle nostre esigenze individuali. Perché non possiamo più spostarci liberamente? Perché IL COVID-19 È ESTREMAMENTE CONTAGIOSO: in assenza di un vaccino e di terapie specifiche, è bene per tutti che il virus non si diffonda a una velocità tale da non permettere al sistema sanitario di prendere in carico i casi gravi. Per questo DOBBIAMO STARE A CASA. La grande maggioranza di noi, me compreso, non ha la competenza medica o l’autorità politica, ma tutti abbiamo la responsabilità come gli altri cittadini di fare la nostra parte accettando la quarantena. Non saremmo degli irresponsabili se agissimo diversamente?

Le normative le dobbiamo osservare in nome della tutela della salute e della vita, consapevoli che possa essere quella dei nostri genitori, dei nostri nonni, dei nostri amici o degli altri parrocchiani. In una pandemia non possiamo permetterci comportamenti anarchici nei confronti di alcune chiare limitazioni e non possiamo evitare la fatica e l’impegno di rispettarle.

E poi, mentre RESTIAMO A CASA, che si fa?

La prima cosa che mi pare ci sia richiesta, almeno per ciò che riguarda la vita comunitaria, è accettare questa anormalità senza avere la fretta, che in questi giorni sarebbe fuori luogo, di ripristinare la normale vita parrocchiale.

Poi possiamo non dimenticare che il Signore è vivo anche adesso e che continua a parlare. In questi mesi ci sono stati diversi tentativi di dare una lettura cristiana di questa situazione, ma sono scettico che ci possa essere un’unica interpretazione generalizzabile per tutti, per il semplice fatto che non tutti la stiamo vivendo allo stesso modo: c’è chi è ammalato in ospedale, chi invece lavora in ospedale, chi sta continuando a lavorare e chi invece ha perso il lavoro, chi semplicemente è dovuto rimanere a casa da scuola, ecc. Dunque ciascuno deve fare la fatica di indagare alla ricerca del significato di quanto sta avvenendo nella propria vita.

E se venissero adottati provvedimenti tali da dover di nuovo fare a meno della Comunione e della Messa? La nostra fede verrebbe forse messa in pericolo per questo?

Carissimi, l’emergenza sanitaria può toglierci la Messa e la Comunione, ma non può certo privarci della fede (se ce l’abbiamo…) e del legame personale con il Signore (e con i fratelli, anche se fisicamente assenti). I sacramenti sono forse “autoreferenziali”, o non sono al servizio della fede delle persone che, condividendola, appartengono alla comunità? Sono una “conditio sine qua non” per avere fede, o piuttosto la presuppongono?

Comunque si evolva la situazione possiamo dunque decidere di impiegare questo tempo insieme a Dio e insieme alla nostra comunità. Ad esempio, perché non provare a darci un orario per pregare e per evitare perdite di tempo? Sentire la vicinanza del Signore e far sentire ad altri la nostra, cercando di prenderci cura delle relazioni fraterne, anche se a distanza! Certamente è possibile continuare a coltivare le amicizie che possono far sentire meno soli e togliere un po’ di quel magone che alcuni certamente provano in questi giorni di buio e forse anche di solitudine. Tutti (o quasi) sono raggiungibili al telefono. Molti anche con i messaggi sms, la posta elettronica, le chat su whatsApp, i vari social network…

Capite, però, che la cura delle relazioni fraterne non può essere semplicemente delegata alla parrocchia con modalità istituzionali. Se davvero esiste, a S. Benedetto, una comunità fraterna di persone credenti, allora si deve vedere! È ciascuno di noi in prima persona che deve decidere se rimanere indifferente o meno e, di conseguenza, se farsi prossimo di qualcuno affinché la propria appartenenza alla comunità cristiana si veda in famiglia, con i vicini di casa, ecc.

Per ciò che riguarda le attività pastorali dei gruppi e della catechesi non possiamo dimenticare che l’incontro con il Signore, anche se a distanza, avviene comunque attraverso una mediazione che passa attraverso di noi: fare catechismo a distanza con testi e video permetterà di passare un messaggio soltanto se noi per primi l’avremo fatto nostro. Detto questo, è chiaro che con i ragazzi e i giovani (ma non solo) si possono usare le piattaforme che consentono riunioni in streaming e telefonate di gruppo.

Termino garantendovi che non appena sarà non solo possibile, ma anche prudentemente opportuno, ci sarà la graduale ripresa delle attività parrocchiali! E quando ripartiremo, sono certo che lo faremo con un entusiasmo e con una voglia di stare insieme ancora maggiori!

Cari parrocchiani di S. Benedetto, non mi resta che mandavi il mio saluto e il mio augurio di ogni bene!!!

Don Paolo

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1 comment to Comunità e pandemia. Don Paolo scrive ai parrocchiani

  • Patrizia Gaido

    Condivido, d. Paolo e spero che questa fase così faticosa che ci impegna ad anteporre il bene comune ai bisogni e desideri individuali, sia anche feconda per una nuova relazione con Dio e fra di noi. Patrizia

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