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Compassione e rispetto: riflessioni

Sulla vicenda di Fabiano Antoniani morto in Svizzera nei giorni scorsi, l’intervento del giurista Alberto Gambino e quelle del prof. Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani e Giuseppe Anzani su Avvenire.

Inoltre un contributo di Carla Corbella.

(articoli tratti da “La Voce e il Tempo”, settimanale della diocesi di Torino)

Compassione e rispetto, ma no a strumentalizzazioni e a confusione tra eutanasia e testamento biologico.

“Fabo è morto alle 11.40. Ha scelto di andarsene rispettando le regole di un Paese che non è il suo”. A dare l’annuncio su Twitter è il radicale Marco Cappato, leader dell’associazione “Luca Coscioni”, che ha accompagnato in Svizzera Fabiano Antoniani, 39 anni, noto come dj Fabo, da tre anni cieco e tetraplegico in seguito a un incidente d’auto, per sottoporsi al suicidio assistito, vietato dal nostro ordinamento.

“Compassione e rispetto assoluti per una vicenda dolorosissima”, dice al Sir Alberto Gambino, giurista e presidente dell’associazione “Scienza & Vita”, esprimendo al tempo stesso un fermo no alla “strumentalizzazione ideologica del caso fatta dai radicali per tentare di accelerare l’approvazione del ddl sul fine vita pendente alla Camera”.

L’attuale testo sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), non ancora approdato in Aula, “non prevede infatti – precisa il giurista – alcuna forma di eutanasia attiva: è totalmente falso e pretestuoso collegare le due vicende affermando che una rapida approvazione del provvedimento avrebbe consentito a dj Fabio di sottoporsi al suicidio assistito nel nostro Paese senza dover ‘emigrare’ all’estero”.

Pur non aprendo in alcun modo al suicidio assistito, l’attuale testo presenta tuttavia diversi profili problematici, prosegue Gambino. Tra questi la possibilità d’interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiali che, chiarisce, “non costituiscono atti terapeutici, bensì presidi vitali”. La loro sospensione “non è accettabile” e si configurerebbe a tutti gli effetti “come una forma di eutanasia passiva”. Se il testo venisse approvato nella forma attuale, avverte, “farebbe passare l’idea molto insidiosa che di fronte a una disabilità complessa si possa legittimare la richiesta e la pratica eutanasica.

Verrebbe insomma trasposta in una legge la convinzione, inaccettabile, che il valore e la dignità della vita in queste condizioni vengano meno”.

Per Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani (Ugci), su questa “tragedia lacerante sarebbe doveroso far calare un velo di silenzio rispettoso e riflessivo”; invece “viene strumentalizzata dal punto di vista politico e ideologico”. Ricordando che nel 2013 l’associazione “Luca Coscioni” ha depositato in Parlamento una proposta di legge d’iniziativa popolare per la depenalizzazione dell’eutanasia, D’Agostino fa notare che

accompagnando dj Fabo in Svizzera, Cappato si è “autolegittimato come il miglior interprete della vicenda”.

Dal punto di vista mediatico, il giurista parla di “vistosa disinformazione” nella quale “si sono mescolati in modo confuso” suicidio assistito, eutanasia, rifiuto delle cure e dell’accanimento terapeutico, testamento biologico, con il risultato di “un gran pasticcio che lascia l’opinione pubblica confusa e disorientata”. E non aiuta l’informazione data sul ddl sul fine vita in discussione a Montecitorio che, conferma D’Agostino, “meriterebbe molti utili emendamenti, ma non riguarda l’eutanasia né il suicidio assistito. Purtroppo in questo momento

si biasima da tutte le parti la lentezza con cui il Parlamento dibatte il provvedimento, che tocca tematiche limitrofe a quelle della vicenda in questione, ma diverse e da tenere ben separate e distinte. Anche su questo punto l’indice di confusione dell’opinione pubblica è salito alle stelle”.

“Non si fanno buone leggi su casi eccezionali, e questo lo è – avverte il presidente dell’Ugci -. Il vero messaggio da mandare alla gente è di speranza, ossia che le ipotesi di morte dolorosa e straziante causate da malattie terribili come quella che aveva colpito dj Fabo sono sempre meno numerose e sempre meglio trattabili dalla medicina”. Al Parlamento D’Agostino chiede di “valutare con serenità e con freddezza ideologica”. L’aumento della “dimensione emotiva e patetica del dibattito”, conclude, non “fa bene a nessuno di noi né alla qualità della politica italiana”.

“Una morte spacciata per libertà”: è il giudizio espresso da Giuseppe Anzani su Avvenire, in un editoriale che porta in evidenza le contraffazioni che ci sono state proposte in questi giorni. “La prima falsificata prospettiva – argomenta Anzani – è quella di confondere il sistema giuridico elvetico con l’attività di alcune associazioni private che operano in Svizzera; di confondere il diritto svizzero con i margini permissivi che permettono a queste associazioni di passare immuni da sanzioni penali; di immaginare (o lasciar credere) che il suicidio assistito sia una specie di protocollo sanitario regolato e gestito negli ospedali secondo le regole del servizio pubblico nazionale o cantonale”. Ma non si dice all’opinione pubblica italiana scossa dal caso Fabo che nella Confederazione “l’eutanasia è un delitto, punito dall’art. 114 del Codice penale” ed “è un delitto anche l’istigazione e l’aiuto al suicidio (art. 115)” anche se solo nel caso sia praticata “per motivi egoistici”. Le omissioni nell’informazione su ciò che in Svizzera sarebbe legale, però, non finiscono qui: “È falsa – spiega il giurista – l’immagine che la legge svizzera ‘regoli’ con un determinato protocollo positivo l’esercizio del suicidio assistito in ambito pubblicistico”, e “falsa del pari è l’idea che il suicidio assistito abbia a che fare con il sistema sanitario svizzero”.

In realtà chi esalta le “libertà” rossocrociate dovrebbe spiegare che “chi si occupa di penetrare nella smagliatura dei ‘motivi non egoistici’ sono le associazioni private” – come Dignitas, che ha eseguito le volontà suicidarie del giovane milanese – le quali “procurano il medico perché prescriva la ricetta del barbiturico mortale”, “si occupano della logistica; sono loro che organizzano il percorso, con regole e prassi interne, che conduce alla fine”, e “riscuotono le tariffe”, perché morire in Svizzera “può costare anche 13mila euro. Chi favoleggia la replica nostrana di un sistema come quello al quale ha fatto ricorso Fabo, assistito dai radicali, immagina uno Stato che provvede gratis con le sue strutture sanitarie, perché è questo che ci hanno raccontato. Ma non è così, anche se sotto i colpi della propaganda mediatica viene così spontaneo esigerlo, se si proclama il diritto di morire in quanto ‘titolari della propria vita’ e si postula che altri abbiano dunque il dovere (ma perché?) di aiutare la morte”. A ben vedere, conclude Anzani, un vero “corto circuito del pensiero”.

 

La morte che non possiamo dare. Una riflessione profonda sul tema del suicidio assistito (di Carla Corbella)

Ognuno dice o scrive il suo parere. E lo spaccia per verità. Molti dividono il mondo in buoni e cattivi, dove «buoni e cattivi» dipende dal proprio punto di vista che è sempre, inutile dirlo, quello dei buoni. Nel mezzo un uomo, Fabiano Antoniani, la cui vita ed anche la cui morte sono diventate un pretesto per battaglie politiche e accese polemiche che hanno dimenticato il rispetto umano che pure proclamano di difendere. Anche la gente comune si è schierata: chi a favore e chi contro la sua scelta di recarsi in Svizzera per il suicidio assistito. Gli argomenti sostenuti sono quelli relativi al fine vita ma presentati con una superficialità e banalità che lasciano perlomeno perplessi: reale ignoranza o mala fede?

Personalmente non so cosa significhi diventare tetraplegico e cieco a causa di un incidente stradale mentre la vita sta raggiungendo il suo apice di maturità da un punto di vista professionale ed esistenziale. Neppure so cosa significasse per Dj Fabo vivere e quale fosse per lui una vita che valesse la pena essere vissuta.

Dunque la prima cosa che mi sembrerebbe importante fare sarebbe quella, se fosse possibile, di mettersi in ginocchio davanti al suo dolore, in silenzio, ed ascoltare. Ascoltare oltre le parole pronunciate, oltre le frasi demagogiche e le strumentalizzazioni mediatiche. Ascoltare, dentro la sofferenza di Fabo, la sofferenza di ogni uomo che cerca disperatamente un senso alla sua vita e alla sua morte. Un senso vero. Non un senso ridotto a legge. Perché nessuna legge, che pure norma i comportamenti, può dischiudere il significato dell’esistenza propria e altrui. E nessuna legge può rispondere adeguatamente alla domanda, silente dentro l’animo di ogni persona ma che diventa urlo straziante nei momenti di crisi profonda, circa il valore non tanto della vita in generale ma della sua in particolare.

Il problema serio, nel marasma delle molte parole fuorvianti dette a commento della decisione di Fabo, non è tanto se le persone siano libere di darsi la morte o meno in queste situazioni, ma cosa rispondiamo noi, come cittadini e come Stato, a chi chiede di morire. L’eutanasia o il suicidio assistito sono risposte perdenti: se per liberarti ti elimino o ti aiuto/lascio morire, sia tu che io abbiamo perso. Abbiamo perso come uomini prima che come credenti. È la nostra umanità che ha perso perché davvero umano, seppur assai difficile, è accompagnare il fratello dentro l’abisso della sua fatica e disperazione senza abbandonarlo. Accompagnare, è bene esplicitarlo, non vuol dire né accanirsi né accondiscendere alle richieste di morte. Accanimento terapeutico ed eutanasia sono due espressioni di un medesimo atteggiamento: quello che fa della propria libertà un valore unico ed assoluto. In queste situazioni, che spesso sono il risultato di una medicina sempre più tecnicizzata ma non necessariamente umanizzata, accompagnare significa, al contrario, non sottrarsi alla relazione sfatando il mito che la libertà personale sia il solo valore vero. Infatti, anche se nessuno può valutare la fondatezza della richiesta di morte, ognuno è chiamato a non rinnegare mai la relazione, la fraternità e la prossimità solidale che non permettono di uccidere il proprio fratello, ma chiedono di curarlo fino in fondo e fino alla fine.

Ai credenti la fede cristiana chiede di fare un passo in più: rendere ragione della speranza che è in noi (1Pt3,15). Ciò significa interpretare la vita, anche nei suoi passaggi più dolorosi, e la morte come occasione di incontro con l’amore salvifico di Dio. È questa la strada, impegnativa ma vitale, per testimoniare con dolcezza, rispetto e retta coscienza (1Pt3,16) che la persona umana è il solo valore che valga la pena difendere.

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