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Iconofobia

LA VISIONE TECNOCRATICA DELL’ATTUALE CIVILTÀ DELLE IMMAGINI

ROMA, lunedì, 13 giugno 2011 (ZENIT.org).

Hans Belting ha rinvenuto due visioni opposte relative al significato dell’immagine: il culto delle immagini proprio del mondo cattolico, il culto della parola,espressione della riflessione teologica protestante[2].

La contemporaneità vive, dunque, un paradosso: avendo apparentemente vinto su ogni fronte nella sfida lanciata secoli addietro, confidando non più nella perenne vitalità di un profondo rapporto di fede in Dio, ma solamente nella tecnologia e nei risultati mutevoli delle scienze, ha di fatto prodotto una “civiltà delle immagini intrinsecamente iconofobica”. Il curioso ossimoro che ne deriva traduce il vero paradosso che tutti noi viviamo, senza però accorgercene.

La fiducia smisurata per il dato tecnologicamente tratto, per il prodotto di elaborazione elettronica, per il risultato meccanico della riproduzione fotografica del reale, ha soppiantato la fiducia nell’uomo. Per esempio, quando ci sono gravi incidenti in qualunque campo tecnologico, per sminuire l’accaduto e tranquillizzare le coscienze si parla di “errore umano” cioè di ciò che è per sua natura, secondo l’immaginario collettivo del mondo moderno, fallibile, incapace di controllo e soprattutto di “esattezza”, ignorando il fatto che proprio l’uomo è il costruttore delle macchine. Come ha notato Hans Jonas la cibernetica (cioè la scienza dei servomeccanismi, ovvero delle macchine che si regolano e controllano da sé, dalla parola greca kybernetes cioè nocchiero) “tanto innocente non è”, e nasconde pericolose trasposizioni di valori tra ciò che è umano e ciò che meccanico[3].

Nel Cinquecento, se si voleva indicare la perfezione, si usavano esempi che valorizzavano proprio le potenzialità umane. Vasari per parlare dell’assoluta esattezza del giudizio matematico, proporzionale ed architettonico di Michelangelo Buonarroti scriveva che egli aveva le seste negli occhi; o ancora Galileo Galilei per esemplificare un sistema complesso e compiuto parlava di tutte le regole del Vinci. Gli esempi si potrebbero protrarre a lungo e lascio alla cultura classica di ciascuno la libertà di ampliare tale elenco.

Potremmo individuare, quindi, una visione tecnocratica che non solo ha imposto culti di tipo tecnologico in ambiti per loro natura umanistici, ma di fatto ha imposto i suoi valori tecnologici anche nell’ambito delle immagini. L’immagine, infatti, viene identificata quasi esclusivamente con il prodotto meccanico di una riproduzione fotografica. Non di rado mi è capitato di vedere esposte sugli altari fotografie di statue e di dipinti famosi oppure fotografie di santi e beati contemporanei. Chiedendo ragione della esposizione delle fotografia di un fondatore, ho avuto come risposta disarmanti motivazioni tecniciste, ovvero che nessun artista sarebbe in grado di riprodurre lo sguardo del santo fondatore così come lo si vedeva in tale immagine, tanto che l’affetto portato per quella foto imponeva che fosse quella immagine meccanica e non un’opera d’arte a troneggiare sull’altare.

Questi fatti dimostrano come la sfiducia nelle capacità dell’uomo, e dell’uomo-artista in particolare, si siano diffuse persino in ambito cattolico, come si sia smarrito il senso del sacro, e come l’imbarbarimento sia tale che non si riesce a ravvisare più la differenza tra una fotografia e un dipinto, tra una riproduzione meccanica e una immagine sacra.

Tale sfiducia, che arriva fino alla fobia, ha raggiunto limiti impensabili anche solo un secolo fa, in particolare nell’uso delle immagini in ambito catechetico e kerigmatico.

L’iconofobia, penetrata lentamente nel mondo cattolico, ha posto ai margini l’uso delle immagini, che vengono utilizzate al massimo come commento visivo ad un testo “scritto”. Il processo di dismissione dell’uso dell’immagine sacra ha prodotto una biforcazione interna al percorso centrifugo di allontanamento dall’uso dall’immagine; da una parte l’immagine crea diffidenza per la sua presunta inesattezza, per una sorta di pregiudizio di minorità sul reale che si è ritenuto a torto meglio descrivibile dalle parole “scritte”, e dall’altra parte l’immagine è ritenuta troppo complessa per essere decifrata e quindi di fatto è muta per l’uomo contemporaneo.

Nella parte della sostituzione del culto dell’immagine con il culto della parola si rintraccia non solo una visione di fatto protestante, ma anche la costruzione di un intero impianto economico-culturale, il sistema di riferimento ad una certa esperienza comunicativa che ha molta più fiducia nella comunicazione verbale, in particolare “scritta”, piuttosto che nell’uso delle immagini come mezzo di catechesi. Gli slogans (ovvero gli headlines) hanno preso il posto dei polittici nelle chiese e le “scritte” hanno sostituito le “pitture”. In certo qual modo la pubblicità è entrata nelle chiese: prima solamente nella parte dell’headline, poi del body copy e nel successivo sviluppo della baseline ed infine con il logotipo graficizzato anche attraverso un lettering appositamente studiato. È ormai esperienza comune trovare sulla facciata, sia di chiese contemporanee sia di chiese storiche, una scritta che ci accoglie. Là dove un tempo era il regno dell’immagine ora è il regno incontrastato della stampa. Gli headlines vengono mutuati dai testi biblici, e così può sembrare che si ponga distanza dal mondo della pubblicità. Nella convinzione che le immagini siano inutili, superflue, costose (e in alcuni non rari casi, vengono ritenute persino contrarie alla fede cattolica) di fatto vengono scritti slogan sulle facciate delle chiese, nell’assurda convinzione che un annuncio pubblicitario alla Chiesa di Cristo possa risultare attraente in un oceano smisurato di cartelloni pubblicitari giganteschi e coloratissimi. Si tratta di scelte ingenue, nate dalla incoscienza del paradosso, dell’inadeguatezza del mezzo al fine.

Analogamente, anche molti ordini religiosi e molti enti o istituti hanno aggiornato i loro stemmi storici utilizzando sistemi di tipo pubblicitario, riducendo lo stemma con capacità polisemica d’espressione a un vero e proprio logotipo graficizzato con aggiunta di lettering. In questo caso, l’ingenuità sta nel pensare che un sistema linguistico colto e complesso come quello degli emblemi o delle imprese sacre sia traducibile in un linguaggio pubblicitario; l’operazione di apparente attualizzazione di un logo, non è in nessun modo in grado di tradurre tutta l’immensa portata simbolica e mnemonica delle meditazioni in figure che sono le imprese. Infatti «l’emblematica sacra non è solo un mezzo per apprendere […], ma si costituisce come un metodo di leggere il mondo alla luce della Rivelazione»[4].

La seconda parte della biforcazione, quella del giudizio di eccessiva complessità dell’immagine che sarebbe muta per l’uomo contemporaneo, è strettamente legata alla prima. Si ipotizza l’indecifrabilità dell’immagine, come se essa non possa più dire nulla; si tratta per certi versi solo di un sintomo dell’iconofobia: è il palese analfabetismo di ritorno di una intera cultura che ha smesso di essere se stessa e ha mutuato da altri le proprie forme e i propri principi etici.

Burke parla di sfiducia nei confronti dell’immagine come documento storico, come testimonianza di un fatto o di un evento. Potremmo dire che su questo punto particolare si assommano diversi problemi. Per esempio, per conoscere un artista si dovrebbe guardare innanzitutto alle sue opere, quali documenti insostituibili del suo modo di pensare e di agire, invece si preferisce fare uso di fonti scritte, spesso discutibili, di ricostruzioni fantastiche e mitiche della vita: il caso di Caravaggio è particolarmente emblematico.

In altri casi, lo studio dell’immagine dipinta viene ridotto ad una narrazione formale, eliminando ogni possibile altro percorso conoscitivo che abbia l’immagine come inizio, fine e mezzo, appiattendo e banalizzando ogni spessore interpretativo nella sola cifra stilistica.

 

 

Di fatto si è abbandonata la pratica dell’uso delle immagini, nel più ampio ambito cultuale e culturale, e così si è dismesso un patrimonio inestimabile, capace di dire a volte molto di più, molto meglio e più profondamente delle parole scritte sui muri. Alla fine del Quattrocento, nel Libro di Pittura, Leonardo, entro l’ambito del paragone delle arti, mostra il primato dell’immagine sulla parola[5], affermando che la raffigurazione di Dio muove l’animo del fedele più che il solo nome scritto: «Pone inscritto il nome d’Iddio in un loco, e ponvi la sua figura a riscontro, vedrai qual fia più reverita» (Libro di pittura I, 19).

 

 

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