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The tree of Life

regia Terrence Malick

 

“Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? […]mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?” (Gb 38, 4.7)

Come il libro di Giobbe, citato dopo i titoli di testa, è attorno alle grandi domande sul senso della vita e del dolore che si dipana la trama del film. E nonostante questo non lo si può definire drammatico, ma piuttosto una riflessione teologica a immagini. E forse solo per immagini (soprattutto se poetiche e ricercate come quelle di Malick) si può esprimere il mistero di Dio e dell’uomo. Ogni altro tentativo – si dice – è solo un balbettare.

La vicenda ruota attorno alla storia di una famiglia americana anni ’50 colpita da un lutto e su quanto l’ha preceduto. La morte è fuori campo, perchè al centro ci sono i pensieri e i ricordi di uno dei protagonisti. La distanza temporale dai fatti rende le immagini rarefatte e in parte mitiche, come appartenenti ad un passato su cui è necessario ritornare per capire e capirsi.

Lo stile narrativo  è tutt’altro che tradizionale, in quanto riproduce una scansione temporale in cui passato e presente si intrecciano fino a unirsi nel futuro dei “cieli e terra nuova” del finale. Pochi dialoghi, ma soprattutto riflessioni di gusto sapienziale condensate in fotogrammi (tra queste la mirabile sequenza che vorrebbe riprodurre la risposta di Dio a Giobbe con la creazione dal caos primordiale).

 


 

2 comments to The tree of Life

  • Paolo

    A me è piaciuto solo al 50%: entusiasmante ed avvincente la parte relativa alla creazione dell’Universo (con una colonna sonora “da brividi”), ai vari inframezzi “metafisici” e al finale.

    Invece la storia che ha fatto da supporto a ciò di cui sopra non mi è piaciuta molto, soprattutto per la eccessiva lunghezza e la ripetività di scene lente e sovente in “sovrappiù” ai fini dello scopo per cui era raccontata. Si poteva arrivare al nocciolo con maggiore e più felice essenzialità……quindi noia in vari momenti del film, la cui impalcatura comunque non è male.

    Questo mio giudizio è da “profano”, non avendo sicuramente dalla mia alcuna preparazione teologica, ma non è del tutto isolato sentendo i commenti di molti spettatori all’uscita del cinema.

    Niente da dire su scene, fotografie e colonna sonora.

  • admin

    Rispondo dividendo le mie riflessioni in due tappe: sulla durata e sulla noia.

    Durata.

    La cultura talvolta è davvero indigesta. Quando si prende in mano “I fratelli Karamazov” ci si chiede perché mai Dostojevski abbia impiegato mille pagine per raccontare l’assassinio di un padre da parte di uno dei suoi figli, ma se vuoi si può arrivare anche a chiedersi perché Giovanni impieghi 4 capitoli per raccontare le ultime parole di Gesù ai suoi quando gli altri evangelisti hanno utilizzato in tutto una manciata di versetti. Ogni volta che si ha di fronte un testo prolisso e rigonfio di parole, in cui la storia sembra non procedere, la domanda sorge quasi naturale. Questa nell’economia del tempo è forse una preoccupazione particolarmente tipica dei nostri tempi frenetici, in cui abbiamo bisogno di fare e non sopportiamo l’azione a rallentatore.

    Ma guarda caso, i tre esempi (tree of life, Karamazov, vangelo di Gv) sono tutte opere della maturità. Allora quel tempo dilatato in cui sembra non succedere nulla contiene qualcos’altro. Quello spazio apparentemente vuoto (Orson Wells lo definiva il vuoto semantico, ovvero carico di senso) contiene il condensato delle riflessioni di una vita, una vita spesa ad osservare e ripensare. Questo non vuol dire che il risultato ci possa piacere o debba essere per forza interessante, ma può tornare fecondo prima o poi e nutrire il nostro spirito in modo inconsapevole.

    Noia.

    Lo spazio che non riempiamo ci annoia, è vero. Facciamo una fatica immane a sopportare il silenzio anche negli spazi canonici della meditazione religiosa. Si tratta però solo di esercizio. La quaresima, ci dicono tutti gli anni, è un tempo propizio anche per questo, ma in fondo è solo una palestra…

    Film “lenti” (dove la lentezza non sia fine a se stessa, ovviamente) hanno l’obiettivo di farci fermare a pensare. Vogliono farsi guardare e non solo divorare. Un film in cui siamo presi dall’azione dall’inizio alla fine desidera solo essere consumato e alla fine ci fa scattare dalla poltrona, perché siamo rimasti attivi in ogni istante. Un film-meditazione come il nostro ci lascia un po’ in balia di noi stessi, ci lascia il tempo per rielaborare i nostri lutti interiori, ci consente di fare nostra la domanda di Giobbe (“perché a me?”) e ci aiuta a pensare alla vita, alla morte e alla risurrezione nello spazio non canonico di una sala cinematografica. E’ un modo per dirci: queste cose appartengono alla tua vita, fuori e dentro la chiesa, quindi anche qui in questo preciso momento.

    Solo che noi non siamo sempre pronti a questo. Quando andiamo a messa o decidiamo di partecipare agli esercizi spirituali siamo pronti psicologicamente, mentre dal cinema ci aspettiamo altro (in genere intrattenimento, anche se di qualità, ma non spiritualità di sicuro).

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